Se ieri vi ho portato nella calda e amata Calabria, oggi ci spostiamo più a nord, nelle valli bergamasche.
Oggi è domenica e, come tutte le domeniche, è tradizione nelle tavole bergamasche un bel piatto di polenta.
Questo piatto è preparato in tutta Italia ma possiamo affermare che la polenta bergamasca è una delle più conosciute ed apprezzate.
Ma come è nato questo piatto?
La storia del mais nel continente europeo ha poco più di cinque secoli e deve la sua importazione agli esploratori che tornarono dalle Americhe con alcuni sacchi di mais e qualche pannocchia. Più precisamente fu Cristoforo Colombo che, nel 1493, importò il granturco in Europa.
La coltivazione di mais fu introdotta nella bergamasca solo dopo la peste del 1630. All’inizio del Novecento la polenta divenne l’alimentazione base dei contadini, basti pensare che una famiglia di mezzadri della Bassa composta da marito, moglie, un anziano e 7 figli consumava in un anno circa 17 quintali di farina di granturco!
Nei momenti storici difficili, per le famiglie più povere la polenta era, lei sola, l’alimento quotidiano per antonomasia: si mangiava a colazione con grappa e zucchero, noci e latte; poi per pranzo e cena con verdure o con quello che c’era. Solo i ricchi l’accompagnavano con altre pietanze, che si diffusero poi nel tempo, come la polenta consa, con burro, panna, salvia, grana e aglio o il più noto polenta e osei, cioè polenta e uccellini. Ancora oggi si fanno questi accompagnamenti, oltre a polenta e coniglio, polenta e funghi o polenta e formaggi come il taleggio, il gorgonzola o lo “Strachitunt”.
Inoltre si narra che la polenta fosse una classica merenda mattutina, infatti si faceva una sorta di pallina, si metteva del gorgonzola e si mangiava con le mani per scaldarsi. Vi è addirittura una canzoncina al riguardo: “ciapà mpo de polènta còlda e apèna facia ‘n di mà, mètega sura ù tòch de talècc e po’ amò de la polènta, schisala co i mà e fan ona balina. Fa rodelà, co i ma o còl rampì, la balina sura la stua còlda, fina a fala dientà brustulida, quase sèca de fò. Dovrà ona polènta mia tròp mòla”, tradotto “prendi un po’ di polenta calda e appena fatta nelle mani, mettila su un pezzo di Taleggio e poi ancora polenta, schiacciala con le mani e fanne una pallina. Falla rosolare sulla stufa calda. Non usare una polenta troppo morbida.”
In ogni casa bergamasca che si rispetti c’è un paiolo di rame o di alluminio in cucina, anche se, così come le farine di mais sono state sostituite da quelle industriali, anche il paiolo di rame è stato spesso soppiantato da altre versioni elettriche, che evitano di mescolarla per ore a mano. Ma non credete che sia proprio questo lavoro, seppur lungo e faticoso, a renderla un piatto unico? Utilizzando la macchinetta elettrica e non il bastù, cioè il bastone tondo per rimestare la polenta, si deve far partire l’ingranaggio nel momento in cui si dovrebbe iniziare a usare il bastone.
I nonni bergamaschi, e prima di loro i nonni dei loro nonni, si basavano sulla crosta che si formava attorno al paiolo. Quando aveva formato uno strato croccante e spesso almeno un millimetro che si staccava dalle pareti, la polenta era pronta. Quella crosta gialla all’interno e annerita all’esterno veniva poi estratta dal paiolo e data in premio prima ai piccoli della famiglia e, se ne rimaneva, ai grandi che la sgranocchiavano accompagnandola con un “calice di quello rosso”.
Ricordiamo che la polenta ha una forte carica sociale: è sempre stato uno di quei piatti che si mangia in compagnia e che non deve mai mancare quando ci sono ospiti poichè è considerato un vero “atto d’amore verso il prossimo”.
E’ un piatto dal sapore unico e importantissimo, basti pensare che in provincia di Bergamo non si distribuiscono le carte in senso orario, ma nel senso in cui sta girando la polenta.
“La polenta per i bergamaschi non è un piatto, ma un atto d’amor”.
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